LE POLIZZE ASSICURATIVE DA INVESTIMENTO – ASPETTI FISCALI E CIVILI

Le polizze assicurative continuano a essere usate anche per finalità di pianificazione patrimoniale e successoria. Ecc0 perché è importante misurarne i vantaggi fiscali (tra imposte dirette, sia pure in misura minore rispetto al passato, e di successione), anche tenendo conto degli ultimi sviluppi della giurisprudenza della Cassazione e della Corte Ue.

Seguendo le categorie dell’articolo 2 del Codice delle assicurazioni private (Dlgs 209/2005), i contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione che assumono particolare rilievo sotto il profilo fiscale sono classificati:
– nel ramo I, assicurazioni sulla durata della vita umana;
– nel ramo III, assicurazioni sulla durata della vita umana le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di quote di Oicr o di fondi interni ovvero a indici o ad altri valori di riferimento (ad esempio, unit linked);
– nel ramo V, operazioni di capitalizzazione, prive della componente di rischio demografico e in cui manca la figura dell’assicurato.
LA DISCIPLINA FISCALE
Ai fini tributari, la legge di Stabilità 2015, con la modifica dell’ultimo comma dell’articolo 34 del Dpr 601/1973, a decorrere dal 1° gennaio 2015 ha limitato la (previgente) esenzione dall’imposizione reddituale ai soli capitali a copertura del rischio demografico percepiti dai beneficiari di contratti sulla vita.
Prima di tale modifica era escluso da tassazione l’intero ammontare delle somme corrisposte, compresi gli eventuali rendimenti di natura finanziaria.

Nell’attuale contesto occorre quindi distinguere tra:
– le polizze di “puro” rischio, come la cosiddetta «temporanea caso morte», i cui premi sono finalizzati interamente alla copertura del rischio demografico e che continuano a beneficiare della integrale esenzione dall’Irpef di quanto corrisposto ai beneficiari;
– le polizze caratterizzate anche da una componente finanziaria, connessa ad esempio all’andamento di un indice o fondo (è il caso delle polizze linked di ramo III).
I proventi finanziari derivanti da quest’ultima tipologia di polizze rientrano tra i redditi di capitale di cui all’articolo 44, comma 1, lettera g-quater del Tuir, determinati ai sensi del successivo articolo 45, comma 4. In linea di principio, l’imponibile corrisponde alla differenza fra il valore di riscatto che sarebbe stato riconosciuto all’assicurato, determinato al momento individuato sulla base delle condizioni contrattuali, e l’ammontare dei premi pagati al netto di quelli corrisposti per la copertura del rischio morte (in questo senso si è espressa l’Agenzia nella circolare 8/E/2016 e nella risoluzione 76/E/2016).
I redditi in questione (ridotti della quota riferibile a eventuali obbligazioni e altri titoli ex articolo 31 del Dpr 601/1973, ed equiparati alle obbligazioni emesse da Stati esteri white list il cui investimento diretto sconta l’aliquota del 12,5%) sono assoggettati a imposta sostitutiva nella misura del 26% per i rendimenti maturati dal 1° luglio 2014; resta comunque ferma, in questo caso, l’esenzione del reddito percepito limitatamente alla componente di rischio demografico.
A normativa vigente, il regime fiscale continua a essere vantaggioso anche per le polizze connaturate dalla componente finanziaria tassata (in particolare ramo I e III), in quanto consentono comunque:
– il differimento delle imposte sui redditi e dell’imposta di bollo dello 0,2% annuo (non dovuta per le polizze ramo I) al momento del riscatto o della successione (cosiddetto tax deferral);
– la compensazione dei redditi di capitale con le minusvalenze da cessione a titolo oneroso all’interno della polizza;
– la possibilità che la compagnia di assicurazione operi come sostituto di imposta verso il fisco italiano;
– l’esenzione da Iva;
– l’esclusione dall’asse ereditario ai fini dell’imposta sulle successioni in quanto i beneficiari ricevono le “indennità” derivanti dal contratto assicurativo iure proprio e non per successione ereditaria.

IL MONITORAGGIO
Inoltre, mediante le polizze è possibile detenere legittimamente attivi finanziari presso istituti di credito esteri, per il tramite ad esempio di fiduciarie residenti in Italia, con ciò evitando l’onere della compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi.

IL PUNTO DI VISTA DELLA CASSAZIONE E DELLA CORTE UE

L’ordinanza della Cassazione 10333/2018 e la sentenza della Corte di giustizia Ue del 31 maggio 2018, causa C-542/16, hanno riacceso il dibattito sulla qualificazione giuridica dei contratti di assicurazione sulla vita a contenuto finanziario.
Il punto nodale è la possibilità che, in alcuni casi, tali contratti siano considerati negozi con causa speculativa e finanziaria, risultando carente la funzione previdenziale tipica del contratto assicurativo e il cosiddetto rischio demografico, con il conseguente venir meno degli effetti civilistici (tra cui l’impignorabilità ed insequestrabilità delle somme dovute al contraente o al beneficiario) e dei vantaggi fiscali. È un dibattito animato, ma forse superabile, se si riporta nei corretti binari la pronuncia della Cassazione e si interpreta il quadro di insieme alla luce della giurisprudenza comunitaria e delle novità normative. Invero, l’orientamento giurisprudenziale (non univoco) secondo cui la spiccata natura finanziaria di determinati prodotti assicurativi ne comprometterebbe la causa previdenziale si è sviluppato rispetto ai contratti sottoscritti prima che le disposizioni del Tuf fossero modificate dalla legge 262/2005 (legge sul risparmio) e dal Dlgs 303/2006 (decreto Pinza), con l’espressa introduzione della categoria dei «prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione». Ebbene, l’ordinanza della Cassazione non sembra esprimere principi dirimenti a tali fini non essendo entrata nel merito – e non poteva essere diversamente – della qualificazione giuridica del prodotto assicurativo oggetto di causa (si trattava di una polizza del 2006 che, in mancanza della garanzia della conservazione del capitale a scadenza, era stata qualificata dal giudice di secondo grado come un investimento finanziario).
L’aspetto nodale affrontato dalla Corte ruota piuttosto attorno all’individuazione del soggetto “investitore” tra società fiduciaria sottoscrittrice della polizza e persona fisica fiduciante, ai fini degli obblighi informativi da parte dell’intermediario e dei presupposti per l’inadempimento contrattuale ove tali obblighi non siano adempiuti. In questo contesto, la recente pronuncia della Corte Ue ha poi affermato che «per rientrare nella nozione di contratto di assicurazione», di cui all’articolo 2, punto 3, della direttiva 2002/92 (poi modificata dalla direttiva 2014/65), è necessario:
– il pagamento di un premio da parte dell’assicurato;
– e, in cambio del pagamento, la prestazione da parte dell’assicuratore in caso di decesso dell’assicurato o del diverso evento previsto dal contratto.
In altri termini, secondo i giudici comunitari, il sinallagma assicurativo risiederebbe nel binomio versamento del premio/prestazione in caso di sinistro, senza che rilevino valutazioni circa l’allocazione del rischio finanziario relativo ai fondi sottostanti la polizza (si veda anche la sentenza 1° marzo 2012, C-166-11).
Del resto, gli interventi della giurisprudenza comunitaria sono in linea con le previsioni della direttiva 2016/97 sulla distribuzione assicurativa attuate in Italia con il Dlgs 68/2018: un prodotto assicurativo, che tale rimane, può includere anche elementi di investimento finanziario. Si definisce infatti «prodotto di investimento assicurativo» (insurance based investment product) – categoria che comprende le polizze di tipo unit index linked e quelle di capitalizzazione – quello che «presenta una scadenza o un valore di riscatto e in cui tale scadenza o valore di riscatto è esposto in tutto o in parte, in modo diretto o indiretto, alle fluttuazioni del mercato».